The Choice

I soccorsi arrivarono in pochi minuti. La polizia allontanò la folla di curiosi che si era assiepata vicino alla banchina. Qualcuno scuoteva il capo, altri commentavano ad alta voce: “Sarà uno rimasto senza ristori…”, “Certo che per fare una cosa così sta fuori di testa.”, “Ma che è un tossico!”. C’era sempre un colpevole: il governo, la malattia mentale, la tossicodipendenza. Nessuno pareva interrogarsi nel profondo; nessuno ad ammettere che il compiersi di quel tragico gesto potesse essere intimamente collegato all’indifferenza dilagante di ciascuno. Eravamo tutti colpevoli ma tutti davamo per scontato che la colpa fosse di qualcun altro in un processo di autoassoluzione che ci condannava all’estinzione. Avevamo dimenticato di essere “umanità”. Il rumore della lettiga che sbatteva sugli stipiti della porta lo risvegliò per qualche secondo aveva il volto fasciato e vedeva le lampade al neon del soffitto come se stesse scrutando da una piccola fessura. Capì di essere vivo. Si riaddormentò. Un raggio di sole penetrava nella stanza disegnando una strana ombra sul muro che gli ricordava il ramo di un albero; lì fuori doveva esserci un giardino. Gli arrivò l’eco di voci concitate che provenivano dal corridoio “Dottore, venga!” “Il ragazzo s’è svegliato”. Di lì a poco fu circondato da un gruppo di persone in camice bianco. Un’infermiera gli sostituì la fiala di glucosio e antidolorifico. Un uomo sulla sessantina con una lunga barba gli si avvicinò barcollando “Sei fortunato – disse – la polizia deve avergli detto di trattarti con i guanti bianchi” e sogghignò – “A me è una settimana che non mi fila nessuno”. Dario non poteva parlare il dolore glielo impediva e forse non era solo quello. Rimase in silenzio e anche nei giorni successivi, che a dire il vero furono circa due settimane, non parlò mai. Le sue gambe non si muovevano più. Il corpo non rispondeva più alla sua volontà. Se ne stava lì immobile in quel letto e non capiva quanto quella condizione sarebbe durata. Ora poteva bere con la propria bocca ma faceva ancora fatica a deglutire il cibo. Una mattina mentre iniziava la sua lotta quotidiana per riuscire a sfamarsi gli si avvicinò una donna. Non aveva camice bianco ma occhi grandi, curiosi e un sorriso rassicurante. “Ciao Dario” – “Riesci a parlare?” – “Sono la dottoressa Palmi. La tua psicologa.” Dario fece per prendere un foglio sul tavolino e a gesti le chiese una penna. La dottoressa subito gliene porse una che tirò fuori dalla borsa. Dario scrisse Non ho nessuna voglia di parlare, vorrei solo camminare. La donna si fece più scura in volto, poi sospirò: “Ti prometto Dario che io e te faremo un lungo cammino perché, vedi, certi percorsi si possono fare anche stando fermi ma richiedono tempo, pazienza e fede”. E di nuovo il suo volto si illuminò.