Anna e Dario si guardarono. Intorno a loro il silenzio. Era una zona sperduta. “Anna, svelta prendi le tue cose e rimontiamo in sella.” “Dario! Che dici! Non possiamo lasciarlo qui”. Lui di rimando digrignò i denti: “Maledizione muoviti! Vuoi finire in galera?” Sembra un paradosso ma a volte ciò che ci porteremo dietro per una vita si decide in un attimo. Si allontanarono da quella scena orribile come chi fugge braccato. Tornati in Italia si promisero più volte a vicenda che non ne avrebbero fatto parola con nessuno e negli anni a venire questo fecero; non ne parlarono mai, neanche tra di loro. Neanche quando Anna rimase incinta. Era felice di poter donare la vita ma nel profondo si sentiva una miserabile per essere stata complice di qualcuno che l’aveva tolta ad un ragazzo. Ogni tanto restava immobile a guardare il fondo del caffè di una tazzina e rifletteva; vedeva il volto del giovane riflesso sul fondo e aveva una sola certezza: chi uccide un uomo muore anch’egli nello stesso istante, solo che spesso non se ne rende conto. Ci fu il battesimo di Michele e poi negli anni tutte quelle feste che scandiscono la vita di ognuno. Arrivò poi quel compleanno. Quello in cui Michele avrebbe compiuto 15 anni. La torta, gli inviti agli amici ogni cosa perfetta così come avrebbe dovuto essere. Dario e Anna aspettavano in finestra che tornasse dalla scuola, non ci voleva molto, un tragitto che Michele faceva in motorino ogni giorno. Giusto dieci minuti. Erano passate da poco le due e Anna e Dario erano affacciati alla finestra. Videro il figlio che svoltava l’angolo e quel maledetto camion piombargli sopra. L’orrore si dipinse sui loro volti. Anna emise un urlo lacerante. Scesero di corsa in strada. Si ritrovarono così Anna e Dario, mano nella mano i volti in una smorfia di dolore. Inginocchiati col capo chino su quel corpo di adolescente esanime; esattamente come quindici anni prima a Creta. Non parlarono mai Anna e Dario; neanche tra loro, neanche al funerale. I silenzi che abitavano le stanze della loro casa raccontavano quello che erano stati e creavano distanze siderali. Impararono ad ignorarsi perché la strategia del silenzio era l’accusa più grande ed efficace; la vicendevole vendetta per non aver mai avuto il coraggio di fare i conti con il passato. Erano il volto di Michele e quello di Corban che si sovrapponevano nei loro sogni. Era la mancanza di coraggio e l’incapacità di perdonare e perdonarsi. Era l’assenza di pace che strilla forte in questo nostro mondo malato, in ogni luogo dove le morti ingiuste si ignorano e regna solo un lugubre silenzio.